Odori e suoni di giorni lontani

olivetti25

Ero ancora uno scriccioletto che aveva da poco superato i suoi primi dieci anni di vita quando ebbi la mia prima macchina da scrivere in regalo. La ricevetti dal mio papà. In ufficio era arrivata la nuova macchina elettrica ed il precedente modello, ormai obsoleto, era destinato allo smaltimento. Invece di buttarla mio padre, che chiaramente conosceva bene le mie passioni, pensò di farmi felice facendomene dono.

E così davvero fu, ma di certo anche io resi felice lei. Le donai nuova vita, o meglio “nuove vite”, fatte di incantesimi, bambole fatate, bande di teppisti “gentiluomini”, medaglioni magici. E fantasia, tanta, tutta quella che una bambina di dieci anni, incontaminata dalle brutture della realtà, poteva concepire. Quella stessa fantasia che invidio disperatamente alla mia gioventù.

Sono sempre stata rituale io, anche da piccola. Scrivevo sul mio supporto preferito (una volta si trattava di un quaderno, un’altra era l’agenda dell’anno passato la cui carta, però profumava ancora di buono) e utilizzavo una penna rigorosamente blu; ma non quel blu opaco e neanche quello troppo sgargiante, quasi sul viola. Si trattava di un blu vivace e brillante, che scorreva da una penna dall’impugnatura comoda e con l’inchiostro “morbido” e “odoroso”. Si trattava di una ricerca certosina, che creava in me quello stato di eccitazione che ti fa formicolare qualcosa dentro, quel momento irripetibile che precedere l’azione e che ti prepara all’insondabile. Soltanto quando avevo identificato il mio armamentario potevo iniziare a spiegare le vele di quella nave che, come nel cartone di Creamy, volava in cielo verso mondi non ancora esistenti; universi che prendevano forma al mio passaggio popolandosi di volti, eventi e sensazioni che scaturivano esclusivamente dal mio piacere o dal mio dolore. Piacere e dolore che si confondono a volte, un po’ secondo la filosofia di Reich: come quando stai con le mai sotto l’acqua corrente che si riscalda pian piano, ed il torpore che soppianta il freddo ti conforta e ti genera piacere. Un piacere intenso che cresce proporzionalmente all’aumento di temperatura dell’acqua che lentamente, molto lentamente, diventa bollente. E le tue mani sono rosse e tu lo sai che ti stai scottando ma, cazzo, ti piace!    E le tue mai restano sotto l’acqua bollente finché, capisci che devi toglierle da lì, ma lo fai a malincuore. Perché quando sei bambino e hai avuto la fortuna di non aver provato altri tipi di dolore dolore, questi ti sembra qualcosa di affascinante, piacevole e soprattutto inconfutabilmente “adulto”.

Quando tutte le passioni erano state consumate, avendo prima consumato i miei personaggi, allora il mio viaggio poteva volgere al termine ed io mi sentivo pronta per scrivere la parola fine in fondo alla storia. E lì entrava in gioco lei, la mia fantastica olivetti grigia, con la quale “copiavo in bella” il mio romanzo (sono sempre stata prolissa, i racconti non li sapevo scrivere neanche allora).

Qui lo strumento che tanto mi affascinava diventò il mio peggior nemico: il ticchettio dei tasti era quanto di meno riservato potesse esistere, svelando a tutti che stavo scrivendo, e la cosa mi infastidiva enormemente; se sbagliavo a digitare anche una sola lettera, e non riuscivo a cancellare decentemente, dovevo riscrivere l’intero foglio; e quando finiva l’inchiostro dovevo aspettare che un adulto acquistasse per me il ricambio. Avevo già capito l’importanza di un notebook ma, ahimè, era ancora lontano il giorno in cui ne avrei avuto uno.  Però, quando l’opera era finita, la soddisfazione era enorme. Guardavo il mio lavoro e mi sentivo appagata, seppur percorsa da un brivido di nostalgia. Come quando torni da una vacanza e sei contenta di essere di nuovo a casa, nel tuo mondo, ma non puoi fare a meno di guardare e riguardare le foto che hai scattato quando ti muovevi fra scenari lontani.

Questo è per me la macchina da scrivere: il ricordo del periodo in cui nacque in me la malattia dello scrittore, dei giorni in cui preferivo le persone inventate a quelle vere, i momenti in cui la fantasia era più vera della realtà e ogni cosa mi era d’ispirazione per creare. I tempi in cui avevo ancora la capacità di perdermi dentro ciò che inventavo.

Quindi ringrazio l’amico che mi ha voluto far dono della mia seconda macchina da scrivere. Non so se la userò mai. Per ora l’ho messa lì, in modo che io possa sempre vederla e ricordare, semmai dovessi scordarlo, ciò che uno scrittore non dovrebbe mai dimenticare: la magia potente della creatività e la bellezza di stare bene da soli con se stessi. A dieci anni come a quaranta.

Odori e suoni di giorni lontaniultima modifica: 2016-03-15T15:26:15+01:00da last_persefone
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